Editoriale
Nel corso della Conferenza Mondiale su «Il compito dell’Università nella lotta per la pace», celebrata a Vienna dal 25 al 29 agosto 1969, Frankl tenne un breve intervento sul tema «Il monantropismo come risorsa per la pace», nel quale testimoniò ancora una volta la sua radicale convinzione che l’autotrascendenza costituisce la premessa indispensabile non solo per affrontare e risolvere problemi psicologici ed esistenziali, ma anche per attivare e realizzare un processo di pace universale.
In un primo momento, come confidò con estrema semplicità, aveva avuto «seri dubbi se accettare o meno l’invito a parlare». Era, infatti, convinto che in circostanze come quelle non si raggiungevano grandi risultati. E, ironicamente, fece riferimento alla storiella di quei soldati che erano caduti in un’imboscata e, sentendo degli spari sulle cime degli alberi, presero subito a fuggire. Ma ecco che uno di loro si voltò e gridò agli imboscati: «Ma insomma, smettetela di sparare! Non vedete che sta passando gente?».
Ciò di cui era convinto profondamente, e lo ribadì spesse volte lungo tutto il corso della sua esistenza, era il fatto di non essere «uno di quegli psichiatri che pensano di essere onniscienti e onnipotenti e si permettono di pontificare nel campo di altre discipline». Onestamente riconobbe che gli psichiatri continuano a ignorare «cosa sia effettivamente la schizofrenia e, soprattutto, quali siano i mezzi adatti per curarla». Di conseguenza, perché «far finta di sapere come si può sradicare la guerra nel mondo?».
Con ciò, ovviamente, non voleva certo negare che la psichiatria possa offrire qualcosa nel campo della lotta per la pace. «Esistono, infatti, dei parallelismi tra la patologia individuale e la patologia sociale, così come vi sono dei meccanismi nevrotici, tra i quali il circolo vizioso dell’ansia d’attesa. Se il desiderio è il padre del pensiero, l’ansia è la madre dell’evento. Quando un conferenziere teme di arrossire o di balbettare, non appena si trova di fronte al pubblico comincia effettivamente ad arrossire e a balbettare. La paura provoca ciò che si teme. L’effetto rafforza il timore originario e il timore aggiunto rinforza, a sua volta, l’effetto. A questo punto non si potrebbe pensare che la paura della guerra possa scatenare le guerre? E che si possa sviluppare una tecnica, analoga a quella del trattamento delle nevrosi, al fine di spezzare questo circolo vizioso?».
Avvalendosi della sua ricca pratica clinica e dopo aver sottolineato che in molti casi «la sfiducia genera altrettanta sfiducia e questa sfiducia giustifica e rinforza la propria», si chiese quindi se non «ci siano dei parallelismi sul piano sociale da poter utilizzare per prevenire ed evitare le guerre». Se, infatti, «vi è una politica per la quale il fine giustifica ogni mezzo», deve esserci «un’altra politica che sa molto bene che vi sono mezzi che non possono giustificare neanche il più sacrosanto dei fini».
Il discorso a questo punto non poté non scivolare sulla questione dei valori. «Cos’è il “fine”? Se si tratta di un valore, vi sono valori riconosciuti da tutti i gruppi? E vi sono dei denominatori comuni su ciò che per tali gruppi rende la vita degna di essere vissuta? Se vi è qualcosa di chiaro e di evidente in questo campo è la considerazione che la semplice sopravvivenza non può essere il valore supremo. Essere uomo significa essere orientato e proiettato verso qualcosa che non è se stesso. L’esistenza umana si caratterizza per la sua autotrascendenza. Quando l’esistenza umana non punta più oltre se stessa, restare in vita non ha senso, anzi è impossibile. Questa almeno fu la lezione che imparai nei tre anni che dovetti trascorrere nei lager nazisti, tra cui Auschwitz e una filiale di Dachau. Da parte loro gli psichiatri militari hanno potuto confermare al mondo intero che i prigionieri di guerra più capaci di sopravvivere erano quelli orientati verso il futuro, verso una meta futura, verso un significato che valeva la pena realizzare nel futuro. Per analogia, non si può applicare ciò all’umanità e alla sua sopravvivenza?».
E ancora una volta la sua lezione di vita si innestò profondamente nel tessuto scientifico e sociale, offrendo un messaggio di speranza e di impegno che va al di là del tempo e dello spazio e si allarga agli orizzonti dell’umanità, senza pregiudizi e senza discriminazioni di sorta. «Se devono essere trovati i valori, se deve essere trovato un significato che valga per tutti, allora vuol dire che l’umanità, dopo aver seguito per millenni il monoteismo, ossia la fede in un solo Dio, deve fare un passo avanti e giungere alla consapevolezza che esiste una sola umanità. Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di un monantropismo».
Eugenio Fizzotti
Viktor E. Frankl
Anche nel buio c’è sempre luce
Orizzonti esistenziali di senso tra teoria e prassi
Grazie ai risultati di ricerche empiriche e di testimonianze dei suoi pazienti, oltre che dei lettori delle sue opere, Frankl riconferma la validità della sua intuizione circa la centralità motivazionale della «volontà di significato» e ribadisce che solo il cambio interiore verso valori e atteggiamenti di donazione permette di affrontare a testa alta, senza rassegnazione e senza rimpianti, le situazioni-limite in cui l’esistenza viene a trovarsi. Il testo, tradotto da Daniele Bruzzone e rivisto e integrato da Eugenio Fizzotti, è pubblicato nel volume Die Sinnfrage in der Psychotherapie (München, Piper, 1981, pp. 59-76).
Daniele Bruzzone
Logoterapia come cura educativa dell’esistenza
Sulle ragioni di un’inossidabile attualità
Con il trascorrere del tempo emerge con sempre maggiore spessore qualitativo il contributo scientifico che la logoterapia di Frankl offre alla riumanizzazione non solo, o non tanto, delle scienze umane, quanto della relazione con il paziente, soprattutto se in gravi e precarie condizioni di vita, e questo su base epistemologica, antropologica, clinica, sociale, politica ed educativa. Ed è quanto mai interessante sapere che l’American Society of Clinical Oncology ha segnalato la logoterapia di Frankl come privilegiato metodo di intervento per pazienti oncologici.
Jorge Oleachea
Formazione del carattere, psicologia e antropologia
Appunti sulla figura e il pensiero di Rudolf Allers
Maestro riconosciuto di Frankl e grande studioso del carattere, Rudolf Allers ha segnato la storia del ventesimo secolo non solo, o non tanto, per la presa di posizione radicale nei confronti del riduttivismo della psicoanalisi ortodossa, ma soprattutto per la serena e costruttiva apertura a indagini psicologiche che comportassero una robusta base filosofica e rispettassero la dimensione trascendente della personalità.
Magda Maddalena Marconi
Dal nonsenso della pedofilia al senso della relazione io-tu
Dalla necessità alla possibilità: la pedofilia, come qualsiasi altra espressione manifestata dall’uomo, ha il diritto di trovare nella logoterapia frankliana uno spazio accogliente e acritico che le permetta di scoprire il senso di esser stata tale, ma anche la possibilità di modificarsi grazie alla scoperta dei valori di esperienza. Quell’obbligo al nichilismo pulsionale e privo di senso può trasformarsi liberamente in una scelta che offre all’esistenza della persona con pedofilia una nuova possibilità di significato.
Angelo Gismondi
La preparazione della prima seduta in logoterapia
Partendo dalla considerazione che, sin dai primi momenti della sua applicazione, tre sono le caratteristiche qualificanti il metodo logoterapeutic, ossia la centralità della persona, il primato della relazione umana e la maieuticità, lo studio evidenzia il ruolo fondamentale della prima seduta che va accuratamente preparata per evitare, da un lato, il facile rischio della direttività e per favorire, dall’altro, un autentico riorientamento esistenziale, fondato sulla dimensione noetica.
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Nono e decimo incontro: Non sappiamo ascoltarli… Ma possiamo imparare a farlo!
L’espressione: «Non sappiamo ascoltarli!» suona come critica autoconsapevolezza e come denuncia nei confronti dei genitori e, in generale, degli adulti, da parte di operatori ed esperti del campo dell’educazione. Occorre, però, andare oltre la denuncia e richiamare ogni educatore alla possibilità di formarsi alla competenza dell’ascolto, che appare oggi, come in passato, necessario complemento al bagaglio educativo di ogni genitore e strumento capace di favorire un incontro con il proprio figlio che sia realmente esistenziale e che possa rappresentare un funzionale canale di conoscenza.
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Uno squillo a un numero di telefono errato innesca una singolare comunicazione tra un giornalista e una ragazzina che crede di messaggiare con un coetaneo. Per il giornalista è la scoperta di un linguaggio sconosciuto, fatto di parole contratte e inglesismi. Ma, aldilà del linguaggio gergale, la ragazza dimostra in fondo di ricercare ciò che tutti i giovani hanno sempre tentato di trovare in ogni epoca: un senso alla propria vita.