Ricerca di senso 2007-2

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Editoriale

Sono sempre più numerosi e inquietanti i fatti di cronaca che hanno come protagonisti ragazzini che, pur provenendo da «buone famiglie», assumono pose da prepotenti e da spavaldi, deridono, offendono e insultano compagni di classe, li isolano dal gruppo, li derubano con violenza e li danneggiano in forme spesso irreversibili. Tali manifestazioni di violenza, esercitate a livello individuale o collettivo, e di tipo sia fisico che verbale o indiretto, possono essere definite «bullismo» se si protraggono nel tempo e se pongono la vittima nell’impossibilità a difendersi. Ciò vuol dire che, se una lite tra ragazzi non può essere qualificata indiscriminatamente come bullismo, può e deve esserlo la propensione all’uso sistematico delle mani per far valere le proprie ragioni, l’intimidazione continua, la prevaricazione ripetuta, il maltrattamento insistente.
È cambiato qualcosa o ci si è sbagliati nel considerare che certe modalità relazionali caratterizzate dalla prepotenza possono venire soltanto da determinati ambienti, quali le periferie delle grandi città o quartieri degradati, privi di adeguati servizi sociali? Quanti ragazzi coinvolti in situazioni di bullismo manifestano, sia pure nel tempo, segnali positivi di cambiamento? È possibile, e in che modo, realizzare degli interventi in rete? Qual è il posto delle istituzioni e delle agenzie educative in una prospettiva di rete? È pensabile un’interazione tra gli enti istituzionali e le risorse del territorio? Quali interventi educativi sono già in atto, ad opera di singoli o di gruppi, con itinerari di prevenzione dai quali possano scaturire modalità relazionali nuove e impegni più concreti e più massicci per la costruzione di una società vivibile?
Nella concreta consapevolezza che tali interrogativi non lasciano tranquillo nessuno, tanto meno un educatore, non è fuori posto suggerire qualche considerazione generale che punta soprattutto ad accostare il fenomeno del bullismo con un atteggiamento libero da qualsivoglia pregiudizio.
Ogni ragazzo, quando avverte prepotente dentro di sé una forza dirompente a scuotersi dagli schemi in cui il contesto sociale, familiare, scolastico e religioso lo costringe, mette in atto delle azioni trasgressive il cui obiettivo è quello di sfidare il mondo degli adulti, rappresentato in prima istanza dai genitori, e seguito a ruota dagli insegnanti, dagli educatori, dai rappresentanti dell’ordine costituito. Ecco che si moltiplicano le risposte sgarbate e strafottenti, i rifiuti a dare una mano, la noncuranza nel tenere in ordine la propria stanza, la ricerca di un abbigliamento stravagante, il linguaggio volutamente volgare. Tutti segnali di ricerca di autonomia, spesso non compresa, eppure necessaria, anche se il più delle volte vengono superati quei limiti che, non codificati da alcuna norma scritta, sono caratteristici di un contesto relazionale sereno e orientato a favorire la maturazione dei singoli soggetti.
Quale adulto non ricorda, infatti, le proprie trasgressioni da ragazzo? Probabilmente, se non sicuramente, è proprio grazie a quelle trasgressioni, per quanto problematiche e raramente accettate, che si è verificato l’indispensabile passaggio all’adultità, nella quale l’assunzione delle responsabilità non può e non deve essere gestita dagli altri, per quanto possano essere riferimenti significativi, ma dalla singola persona, divenuta consapevole delle proprie risorse.
Ovviamente, parlare di superamento di limiti non vuol dire chiudere gli occhi dinanzi al venir meno di valori di riferimento, quali il fondamentale rispetto della persona, l’accettazione delle diversità, l’impegno al confronto critico, la solidarietà con chi appare più debole e bisognoso di sostegno. Nello stesso tempo risulta quanto mai evidente collocare le trasgressioni dei ragazzi in un contesto sociale, culturale, politico ed economico che premia chi vince a qualunque prezzo, chi imbroglia e se la cava sempre bene, chi calcola in forma macroscopica come conseguire successi a spese di chi non ha potenti cui appoggiarsi, chi sperpera denaro pubblico a proprio vantaggio, chi manipola sfacciatamente l’informazione solo per far piacere al politico di turno, chi evade impunemente il pagamento delle tasse, chi firma falsi certificati per attestare falsi invalidi.
In fondo, diciamolo a chiare lettere, è la società degli adulti a essere malata di bullismo, nelle forme più esasperate ed esasperanti. È bene allora prendersela con i ragazzi che si fanno giustizia da soli o si atteggiano a prepotenti di bassa lega e impegnarsi in un’opera di prevenzione e, soprattutto, di educazione al senso critico; ma è ancor più importante che gli adulti si guardino allo specchio con estrema serietà e riconoscano che i lineamenti del bullo i ragazzi li hanno appresi da loro, dagli indecorosi spettacoli televisivi in cui uomini politici se le suonano di santa ragione a parole e con le mani, dai traffici economici e dagli sperperi ingiustificati del denaro pubblico, dall’arrivismo esasperato al potere, dalla manifesta incapacità di riconoscere il valore della persona per quello che è e non per quello che ha, dalla sregolatezza di spettacoli televisivi che si compiacciono di evidenziare sevizie, crudeltà, violenza, mancanza di solidarietà.
L’unico e significativo modo per affrontare il bullismo è che adulti, genitori, educatori, operatori, politici, e via dicendo, si interroghino sinceramente e onestamente prima di tutto su chi vogliono essere, su quale senso di responsabilità maturano giorno per giorno, su quale modello di vita stanno incarnando. Il passaggio al livello dei ragazzi, alla comprensione delle trasformazioni che vivono, alla scoperta delle motivazioni che sottostanno alle loro trasgressioni sarà meno difficoltoso, così come sarà meno problematico stare loro accanto per aiutarli ad affrontare diversamente la possibile ricerca di protagonismo, magari anche violento, che può animarli.
Eugenio Fizzotti

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