Ricerca di senso 2007-3

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Editoriale

«I recenti studi sulle determinanti della felicità, condotti da alcuni tra i più impor-tanti economisti, psicologi e sociologi su dati a mezzo intervista raccolti su campioni rappresentativi dei principali paesi del mondo, delineano un quadro sorprendentemente significativo e omogeneo nei suoi risultati principali». Da questa constatazione è partito Leonardo Becchetti, docente all’Università Tor Vergata di Roma, per presentare a Orvieto nel corso del convegno «Vita buona, vita felice. Oltre l’utopia per una storia nuova», organizzato dalle ACLI, i risultati di uno studio empirico condotto su un campione di più di 117.000 individui pro-venienti da 65 paesi diversi. La felicità, infatti, è correlata positivamente non so-lo con vari indicatori di benessere psicofisico, quali la pressione arteriosa e l’equilibrio ormonale, ma anche e soprattutto con il livello di istruzione, la qualità della salute, il reddito relativo, alcuni shock negativi, come la perdita del lavoro, il fallimento delle relazioni affettive e l’inflazione, e shock positivi, come il matri-monio, le politiche sociali e quelle economiche.
Un ruolo decisivo, a dire di Becchetti, è dato «dalla propria posizione economi-ca rispetto a quella media del gruppo di riferimento con il quale l’individuo si confronta. Se così non fosse avremmo dovuto assistere a un aumento costante e progressivo di felicità nel corso dell’ultimo secolo e più in generale dall’inizio della storia dell’umanità. In realtà la legge del reddito relativo rivela parados-salmente che l’individuo più ricco di uno sperduto villaggio africano deriverebbe dal proprio reddito lo stesso contributo alla felicità individuale del più ricco indi-viduo di un paese altamente industrializzato». In effetti la ricerca ha indicato che la quota di coloro che dichiarano il massimo livello di felicità nei Paesi ad alto reddito (15,84%) è solo leggermente superiore a quella degli intervistati nei Pa-esi meno ricchi (13,47%). Infatti ai primi nove posti nella classifica si sono piaz-zate, subito dopo il Lussemburgo, la Nigeria, l’Indonesia, la Slovenia, la Tanza-nia, l’Uganda, la Turchia, la Lettonia, la Croazia. Paradossalmente l’Italia si tro-va al cinquantaseiesimo posto, seguita a ruota da Islanda, Austria, Giappone, Repubblica Ceca, Romania, Francia, Ucraina, Lituania e Russia.
Come si spiega la parziale convergenza di felicità tra Nord e Sud del mondo a fronte di una mancanza di convergenza in termini di reddito? La ricerca, attra-verso una domanda esplicitamente diretta a quantificare la frequenza del tempo trascorso con familiari, con colleghi di lavoro fuori dell’orario di lavoro, in gruppi religiosi e con amici, e alla quale si rispondeva scegliendo una delle quattro modalità indicate (mai, alcune volte all’anno, alcune volte al mese, ogni setti-mana), ha identificato un suo effetto diretto molto significativo e positivo sulla felicità. «Nei paesi più ricchi — ha notato Becchetti — a redditi più elevati corri-spondono maggiore produttività e maggiori salari e dunque un costo maggiore del tempo libero (un’ora di tempo sottratta al lavoro costa esattamente l’ora di salario perduto). Parallelamente l’aumento delle distrazioni aumenta il valore del tempo libero non relazionale che compete con quello dedicato alle relazioni. Questo spiega perché talvolta si definiscono le nostre società ricche di denaro e povere di tempo (relazionale) e quelle dei paesi meno sviluppati povere di de-naro e ricche di tempo (relazionale), sebbene la dotazione di tempo a disposi-zione degli individui sia la stessa per entrambe».
Ovviamente parlare di tempo «relazionale» da vivere in pienezza e in forma al-tamente significativa per essere felice vuol dire chiamare in causa l’azione co-ordinata di più individui, coinvolgendo esplicitamente le politiche economiche, sociali e politiche, oltre a quelle familiari e religiose. Se non si può essere felici da soli, ma solo attraverso relazioni particolarmente ricche, occorrono delle poli-tiche volte a massimizzare quei beni che rendono la persona felice (istruzione, salute, vita relazionale, reddito), considerando — sempre con le parole di Bec-chetti — «la creazione di valore economico non più come un fine a cui sacrifi-carli, ma come un mezzo necessario per produrre risorse che contribuiscono a realizzare una società in grado di garantire una maggiore qualità di istruzione e salute e una più ricca vita di relazioni».
Ecco perché la politica, non potendosi distaccare dalla vita delle persone e dalla domanda di «star bene» che i cittadini avanzano di continuo, ha il compito di organizzare una risposta che riconosca il valore di un’etica della corresponsabi-lità, grazie alla quale si supera la semplice considerazione che la vera felicità sboccia solo allorché si giunge all’apice del successo e si scopre che diventa impossibile essere felici se mancano i legami di fedeltà e di solidarietà. E que-sto particolarmente nel contesto familiare che, come ha rilevato Andrea Olivero, presidente nazionale delle Acli, provoca spesso un azzeramento di ogni etica del limite, nel senso che nella famiglia «i bambini sperimentano troppo presto esperienze adulte e vengono precocemente socializzati al consumo con la con-seguenza che il consumismo sembra essere il solo tipo di cittadinanza offerto loro e la libertà della democrazia viene a coincidere con la libertà di consumare tutto quello che desiderano». E ancora una volta si rileva che «solo ristabilendo il primato delle relazioni sulle cose si restituisce alla realtà un ordine di verità e di priorità: la felicità, infatti, non è data dalla quantità di beni materiali prodotti, posseduti o consumati, ma dallo star bene con se stessi e con gli altri».
Eugenio Fizzotti

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