Ricerca di senso 2010-3

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Editoriale
Sono due i libri nei quali Viktor E. Frankl, fondatore della «Terza scuola viennese di psicoterapia», nota in tutto il mondo come «logoterapia e analisi esistenziale», ricorda con toni appassionati l’incontro che nel 1970 ebbe con Paolo VI.
Nei suoi appunti autobiografici, apparsi nel 1995, due anni prima della morte, con il titolo Was nicht in meinen Büchern steht (München, Quintessenz) e tradotti in italiano nel 1997 con il titolo La vita come compito (Torino, SEI), Frankl ricorda che, in risposta alle congratulazioni che il Papa gli rivolse per il successo della sua teoria sul senso della vita, gli disse: «Mentre gli altri vedono soltanto quel che posso avere conseguito e ottenuto o, per meglio dire, quel che mi è riuscito e che ho realizzato, solo in questo momento mi rendo davvero conto di quel che avrei dovuto e potuto fare, ma non ho fatto. In altre parole: quello di cui sono ancora debitore nei confronti della grazia che mi è stata fatta, regalandomi altri 50 anni, pur avendo io dovuto oltrepassare i cancelli di Auschwitz».
La richiesta di incontrare il Papa non fu iniziativa di Frankl, ma dei responsabili del CRIS (Centro Romano di Incontri Sacerdotali) che lo avevano invitato a Roma per tenere nell’Aula Magna della Residenza Universitaria Internazionale una conferenza sul tema «Psichiatria e volontà di significato» all’interno di un convegno dal titolo Sacerdozio e senso della vita, nel quale intervennero anche il Cardinale John Wright e Giambattista Torellò. Ed ecco come egli descrisse l’incontro: «Mia moglie Elly [sposata dopo la tragica esperienza della detenzione nei lager nazisti] venne con me ed eravamo ambedue profondamente commossi. Paolo VI ci salutò in tedesco e proseguì in italiano, mentre un religioso faceva da interprete; il Papa lodò il significato della logoterapia non soltanto per la Chiesa cattolica, ma anche per l’umanità intera. Egli poi lodò il mio comportamento nel campo di concentramento ma, detto sinceramente, non so a cosa si riferisse in concreto».
In realtà il Papa ben conosceva la tragica esperienza che Frankl, assieme ai suoi genitori, alla sua prima moglie Tilly e a tanti altri parenti, aveva vissuto nei lager di Theresienstadt, Auschwitz, Kaufering e Türkheim perché da fonti dirette si seppe che gli era stata fatta recapitare una copia del libro Uno psicologo nei lager (Milano, Ares) in cui Frankl aveva descritto non tanto le sevizie cui i prigionieri erano sottoposti, ma il suo impegno a sostenerli e incoraggiarli nel vivere l’esperienza di sofferenza e di umiliazione cui erano costretti come occasione privilegiata per realizzare il senso della sofferenza, della vita e della morte.
Ciò che invece il Papa non conosceva era il contenuto straordinario di alcune lettere che Frankl scrisse negli anni immediatamente seguenti la liberazione dai lager nazisti e che, ritrovate in archivio, sono state pubblicate nel volume Lettere di un sopravvissuto. Ciò che mi ha salvato dal lager (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008). In una di esse, infatti, inviata agli inizi del 1946 a degli amici che si erano rifugiati prima della guerra a New York, così rifletteva: «Il fatto che io, unico di una schiera di medici viennesi, sia riuscito a salvare la pelle dipende da una sequela di almeno mille interventi miracolosi. Non è possibile elencarli tutti. Alla fine di aprile del 1945 fui liberato dagli americani. Lavorando come medico capo in un ospedale americano presso un sanatorio bavarese mi ripresi subito. […] A Monaco, poco prima di partire per Vienna nell’agosto del 1945, seppi che anche mia madre era giunta dopo di me ad Auschwitz, dove patì la morte di una martire per soffocamento nella camera a gas. Il giorno stesso del mio arrivo a Vienna mi fu riferito che mia moglie (all’età di 24 anni) aveva pagato il suo amore per me, ossia la scelta di seguirmi spontaneamente, con la morte. Finì i suoi giorni all’inizio del 1945 nel famigerato lager di Belsen. Potete immaginare la mia reazione. […] Ormai il mio dovere è di continuare a vivere, per essere degno della grazia che mi è stata concessa nell’essere ancora in vita — nonostante tutto».
Oltre a quello già riferito, ci sono altri tre passaggi che Frankl ha sempre tenuto vivi nella memoria, e posso testimoniarlo di persona per la prolungata e vivace collaborazione che abbiamo avuto, tutte le volte che il discorso scivolava su Paolo VI. In modo esplicito li riferì in un lungo dialogo, avuto con il teologo ebreo Pinchas Lapide, che ha visto la luce in traduzione italiana nel 2006 nel libro Ricerca di Dio e domanda di senso. Dialogo tra un teologo e uno psicologo (Torino, Claudiana). Il primo riferisce che del Pontefice ricevette l’impressione «di un uomo con il volto segnato dalle notti insonni, trascorse lottando con se stesso, con la propria coscienza, per prendere delle decisioni, quelle che la coscienza gli imponeva; e questo pur sapendo perfettamente che rendevano impopolare non solo lui, ma l’intera chiesa. Era segnato da un’umiltà incredibile, impossibile da immaginare».
L’altro passaggio, di cui Frankl aveva fatto cenno anche nel volume autobiografico, è altrettanto simpatico e significativo: «Mia moglie, che era lì, ha pianto tutto il tempo; era sconvolta. Poi ci congedò, dopo aver donato a mia moglie un rosario e a me una medaglia. Al momento di allontanarci, improvvisamente, mi chiamò in tedesco. Si immagini la situazione: il papa che, dopo il saluto alla fine dell’udienza tenutasi quasi interamente in italiano, chiama di nuovo il neurologo ebreo di Vienna per dirgli in tedesco “Bitte, beten Sie für mich! (Per favore, preghi per me!)”. Ha detto esattamente così. Una cosa incredibile, che uno non si immagina, se non l’ha vissuta, o non ne è stato testimone. Lui era così».
Di grande valore è il terzo riferimento che Frankl fa a Paolo VI dopo che Pinchas Lapide gli racconta che, nel periodo in cui era stato console a Milano, aveva conosciuto molto bene Mons. Montini da arcivescovo del capoluogo lombardo e, nel corso di una cena kasher, aveva ricevuto alcune confidenze circa il suo passato in Vaticano, sotto Pio XII durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale, «quando era responsabile dei diversi impegni caritativi della Santa Sede. A tale riguardo disse che non lo lasciava tranquillo il fatto che non aveva fatto abbastanza e che sentiva molto il peso della colpa cristiana per le sofferenze del popolo ebraico. Per questo motivo, disse, si era imposto di digiunare ogni anno durante il nono giorno del mese ebraico Ab, il giorno della distruzione del Tempio, per contribuire almeno simbolicamente con una piccola parte di espiazione personale». A questa notizia Frankl così reagisce: «Mi commuove, e sa perché? Perché mio fratello, prima che lo portassero ad Auschwitz, dove morì insieme a sua moglie, rimase nascosto per anni in Italia e lì fu catturato dalle SS. Fino a quel momento aveva vissuto in un paesino a spese del papa del tempo. Egli si era preso cura di loro e questo, come ho appena appreso, dev’essere avvenuto passando attraverso il futuro Paolo VI. So addirittura che mio fratello fu incaricato di stilare e sottoscrivere un grande atto di omaggio per l’allora papa Pio XII, allo scopo di ringraziarlo per averli protetti. Tutto questo, come vengo a sapere da lei oggi, dev’essere stato grazie all’intervento del futuro Paolo VI. Peccato che non lo sapevo quando mi recai in udienza da lui».
La visione teorica che sta alla base della metodologia elaborata da Frankl per la cura delle nevrosi esistenziali risulta ogni giorno più di grande spessore significativo, soprattutto per la sua radicale apertura a tutte le dimensioni dell’esistenza, compresa quella spirituale, ritenuta anzi la più comprensiva e indispensabile per favorire il conseguimento di un ben-essere globale. Ecco perché è quanto mai opportuno e doveroso questo suo ricordo personale di Paolo VI, segno della profonda umanità e della profonda religiosità che ha animato entrambi lungo tutto il corso della loro esistenza e della loro apertura ai valori, alla trascendenza e alla solidarietà.
Eugenio Fizzotti
Approfondimenti
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Un corso di Biodanza con disabili offre la possibilità di stimolare le risorse insite in ogni persona affinché ciascuno senta di essere unico e in connessione con gli altri. La biodanza, infatti, rafforza le individualità, valorizzando le differenze, e fortifica il senso di appartenenza, ripristinando la capacità di formare legami con gli altri membri del gruppo in cui è fondamentale percepire le somiglianze. Si tratta pertanto di un ottimo strumento educativo capace di offrire possibilità espressive della propria interiorità anche a chi ha grosse difficoltà motorie e di comunicazione.