Editoriale
Nato a Vienna il 26 marzo 1905 e deceduto nella medesima città il 2 settembre 1997, Viktor E. Frankl ha legato il suo nome e la sua vicenda intellettuale, formativa e terapeutica alla «logoterapia», ossia a quel metodo di cura che pone in evidenza la mancanza di senso nella vita come possibile fattore di disagio psicologico. La conseguenza è duplice: da un lato mettere in atto strategie di intervento che facciano leva sulla capacità dell’uomo di prendere le distanze dai condizionamenti cui è sottoposto e dall’altro contribuire all’elaborazione di una visione dell’uomo che abbia al centro l’orientamento verso gli altri, verso i valori, verso Dio.
Alla base della logoterapia ci sono tre vicende della vita di Frankl di particolare rilevanza: l’impegno fin da studente universitario per i giovani in difficoltà del suo tempo con la creazione dei Centri di Consulenza in cui poter trovare aiuto e sostegno; il servizio per decenni in vari ospedali psichiatrici con pazienti bisognosi soprattutto di una relazione umana profonda e ricca di valori; la deportazione in quattro lager nazisti nei quali tutta la sua famiglia fu distrutta e da cui tornò con la convinzione che la vita è un bene troppo prezioso, che deve essere vissuta in pienezza sempre, nonostante tutto.
A Frankl, con il quale ho trascorso lunghissimi periodi di studio e di ricerca, ebbi modo di rivolgere alcune domande nell’ultimo incontro che ebbi con lui a Vienna, poche settimane prima che morisse.
D. Prof. Frankl, come mai tanti giovani si suicidano?
R. In realtà dovrei rispondere con un’altra domanda, e cioè: «Perché non dovrebbero suicidarsi?». Ed è esattamente questa la ragione: i giovani non hanno argomenti da contrapporre al «Perché no?». Non hanno nulla, nessun obiettivo, nessun valore sulla cui base astenersi da questo genere di azioni. La motivazione sta in quella diffusa sensazione di mancanza di senso che purtroppo pervade il mondo moderno. Basti pensare che di recente da alcune ricerche è risultato che l’80% degli studenti dei college americani ha confessato di giudicare la propria esistenza priva di senso.
D. Perché si è così forti in un campo di concentramento e così deboli nella vita quotidiana, oggi, fino al punto da ricorrere al suicidio?
R. In un campo di concentramento, come in qualsiasi altra situazione di emergenza, l’individuo tende strenuamente verso un certo obiettivo: il compito di sopravvivere alla giornata e di arrivare a quella successiva in condizioni di pericolo di vita. Oggi, invece, nessuno sperimenta il pericolo di vita, ad eccezione di chi deve vedersela con criminali o con soggetti simili. La vita, ai nostri giorni, è relativamente facile ed è proprio questo che fa emergere la sensazione di un’abissale mancanza di senso. Nulla ha senso, non c’è alcun compito da svolgere per arrivare al domani. C’è solo il vuoto, il nulla, quello che io definisco «vuoto esistenziale».
D. Lei ha incontrato Sigmund Freud e Alfred Adler, fondatori di due grandi scuole psicoterapeutiche viennesi, quando era giovane studente universitario e ha anche studiato le loro teorie. Oggi un giovane a chi può guardare? A quale persona può riferirsi?
R. Sarebbe un’interpretazione erronea delle mie teorie affermare che io mi batto solo per la ricerca di un senso nella vita. Io mi batto anche per la ricerca di un modello, di un esempio da seguire. Io e la mia generazione siamo stati fortunati nel disporre di modelli come Freud o Adler, nell’aver incontrato di persona degli esempi che hanno lasciato una traccia nella nostra anima e ci hanno fatto intravedere possibilità e obiettivi verso i quali crescere, superando noi stessi.
Penso, ad esempio, a Freud che non si è lasciato abbattere per anni e anni e ha lottato strenuamente contro l’ignoranza e il disprezzo dei suoi contemporanei. Basti ricordare le accuse di porno-autore che gli furono rivolte da autorevoli riviste culturali austriache. Come pure il fatto che per vendere la prima edizione della sua famosa opera Interpretazione dei sogni ci vollero ben dieci anni! Non diversamente è accaduto a me: la ristampa del libro sull’esperienza dei campi di concentramento, che pubblicai nel 1946 al rientro da Auschwitz, andò completamente al macero; eppure, oggi è una delle opere più tradotte del mondo e fa parte dei dieci libri della letteratura mondiale che, a dire del Congresso Americano di Washington, hanno cambiato il corso della storia.
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