Ricerca di senso 2011-3

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Editoriale
Il rapporto di intensa amicizia e collaborazione che, a partire dal lontano 1968, ho avuto la fortuna — davvero provvidenziale — di intessere con lo psichiatra austriaco Viktor E. Frankl, fondatore della Terza scuola viennese di psicoterapia, nota in tutto il mondo come «logoterapia e analisi esistenziale», mi ha permesso di «gustare» da vicino la sua pienezza di vita, di godere un’esperienza unica e realmente originale, di attingere direttamente alle sorgenti la carica di umanità ricca e senza confini che è contenuta nella proposta della logoterapia. E il lavoro che da oltre quarant’anni porto avanti con la traduzione in italiano delle opere di Frankl, con la pubblicazione di numerosi studi sui fondamenti antropologici della logoterapia, con le iniziative di formazione e di divulgazione che, con diversi amici e collaboratori, ho attivato su espressa richiesta dello stesso Frankl mi consente di guardare nello stesso tempo al passato e al futuro di Frankl e della logoterapia e di offrire una testimonianza serena e appassionata.
Vorrei infatti ricordare, non senza commozione, assieme alle lunghe conversazioni avute con lui e alle discussioni spesso animate su punti centrali del suo pensiero, i tanti momenti di serenità e di intimità vissuti insieme: la preghiera nella sinagoga di Firenze, le passeggiate nel Prater di Vienna con la nipotina Katja di pochi anni, le scalate sul monte Rax, la visita ai negozi di Napoli, la visione estasiata del mare nella cittadina siciliana di Taormina, l’incontro indimenticabile con il papa Paolo VI, la visione del film «Il padrino» in una sala cinematografica di Vienna, le allegre cenette in caratteristici locali di Roma.
Un’esperienza particolare vorrei riportare: nell’ottobre del 1972, mentre eravamo a cena in un ristorante ungherese di Vienna — e ovviamente, come sempre, c’era la signora Elly — un gruppo di tzigani cominciò a suonare dei walzer. In quel momento mi ricordai di quel passaggio, commoventissimo, del libro Uno psicologo nei lager (Milano, Ares, 2009, 20ª ed.), in cui Frankl descrive ciò che accadde una sera nel lager di Auschwitz: «Non dimenticherò mai che, nella seconda notte ad Auschwitz, mi svegliò dal profondo sonno della spossatezza il suono d’una musica: il capo del Lager aveva organizzato nel suo alloggio, accanto all’ingresso della baracca, un piccolo trattenimento. Voci d’ubriachi sbraitavano melodie di canzonette. Poi, d’improvviso, vi fu silenzio — un violino pianse un tango, d’una tristezza infinita; non era un motivo alla moda, non era banale… Il violino piangeva, mentre qualcosa piangeva anche in me. Perché in quel giorno qualcuno compiva 24 anni; questo qualcuno giaceva in una baracca del Lager di Auschwitz, a poche centinaia o migliaia di metri da me, ma irraggiungibile; questo qualcuno era mia moglie» (p. 82).
Affascinato dalle musiche degli tzigani nel ristorante e riandando a quella particolare esperienza, mi permisi timidamente di chiedere a Frankl se ricordasse qual era il tango che il violino «pianse» in quella notte nel Lager di Auschwitz. Si fece serio nel volto, gli occhi lentamente si inondarono di lacrime, si concentrò e, dopo alcuni secondi di un silenzio che sembrava non finire mai, con un filo di voce prese a canticchiare quel tango. Il clima era quello di una solenne cerimonia: la cerimonia dell’amore che, al di là del tempo, si perpetua e si purifica.
Fissai bene in mente le note e, tornato in Italia, cercai disperatamente lo spartito. Riuscii a trovarlo e lo spedii a Vienna, con poche, semplici parole. E negli anni seguenti ho voluto che il silenzio accompagnasse quel dono che riproponeva un’esperienza forte e indimenticabile sia per Frankl che per me.
Mi sembra opportuno, a questo punto, riproporre alcuni passaggi che evidenziano l’intreccio tra la vicenda umana di Frankl e la nascita e lo sviluppo del suo pensiero.
In primo luogo va ricordato che Frankl è stato un acuto lettore e interprete del disagio giovanile. Gli articoli che, da giovane studente universitario, ha pubblicato a Vienna a partire dal 1923 avevano per oggetto la condizione di precarietà e di estremo rischio in cui si trovavano i suoi coetanei. Suicidi e fughe da casa rappresentavano, per moltissimi, l’unica soluzione intravista e ipotizzata come conseguenza di fallimenti scolastici, di insuccessi affettivi, di inutili tentativi di trovare lavoro, di mancanza di comprensione e di amore. Con l’animo sensibile e generoso che lo caratterizzava, dinanzi al quadro devastante di una gioventù pericolante, egli sentì impellente l’esigenza di «fare qualcosa» per evitare che giovani vite finissero nel baratro e, chiamando a raccolta psicologi, medici ed educatori, diede vita a quei «centri di consulenza» che nel giro di pochi anni offrirono a innumerevoli giovani la possibilità di esaminare con serietà e rigore scientifico, in un clima di rispetto e di fiducia, i loro problemi esistenziali e di trovare le soluzioni più adatte. Ed è stato per me quanto mai interessante raccogliere quei suoi scritti giovanili, tradurli e pubblicarli nel volume Le radici della logoterapia (Roma, Las, 2000), per verificare lo stretto collegamento tra l’impegno di solidarietà e di servizio ai giovani e l’elaborazione di un sistema di pensiero che è stato ampiamente riconosciuto a livello internazionale come originale e di grande attualità.
Indubbiamente è in quell’esperienza di impegno e di solidarietà che affonda le radici la passione con la quale negli anni seguenti difese la dignità dei suoi pazienti ebrei e ne riconobbe, nonostante i tentativi effettuati dal punto di vista sia medico che politico, il diritto a vivere anche quando la malattia inguaribile, fisica o psichica che fosse, portava a decidere per la loro soppressione, oppure quando l’appartenenza a una «razza» o a una «religione» diversa veniva considerata come un fattore di discriminazione.
La sua convinzione che l’uomo è radicalmente libero, non certo da condizionamenti organici, fisici, culturali, sociali, politici e religiosi, ma è libero per assumere responsabilmente la vita nelle proprie mani e orientarla verso un progetto di servizio, di dedizione e di amore, non ha trovato entusiasta accoglienza nel mondo scientifico e culturale. Così come non è stata ben vista la sua tenace affermazione della realtà di valori e di significati da scoprire e da realizzare in un mondo che va invece verso la superficialità, l’immediatezza, la banalità, la commercializzazione, lo sfruttamento indiscriminato delle persone, oltre che delle risorse, la svalutazione di qualsiasi impegno serio e coerente, la manipolazione delle coscienze. È molto più facile, infatti, attribuire a fattori psicologici, consci o inconsci, la responsabilità delle proprie azioni, piuttosto che farsene carico e dichiarare con umiltà e coraggio il ruolo del proprio personale e ineludibile coinvolgimento. Così come risulta meno problematico attribuire, nei propri fallimenti personali, un peso determinante agli influssi dell’ambiente, della famiglia, della cultura, dei mass media, piuttosto che riconoscere il peso del proprio disimpegno e della propria superficialità.
Un ultimo aspetto vorrei evidenziare in questo rapido ricordo di Frankl: come intelligente studioso dell’esistenza umana in una prospettiva pluridimensionale egli non poteva negare la presenza efficace, sia pure difficilmente indagabile con gli strumenti puramente tecnici di cui è dotata la psicologia, della spiritualità che apre l’uomo all’infinito, al trascendente, al rapporto amoroso e coinvolgente con un Dio personale, anzi «personalissimo», dal quale riceve un compito che è un dono e un impegno, e al quale occorre rispondere con la pienezza della propria libertà e della propria responsabilità. Basta leggere il suo libro Dio nell’inconscio (Brescia, Morcelliana, 2002, 5ª ed) per rendersene conto.
Il rigore scientifico non ha impedito a Frankl di mantenere viva la fede religiosa, quella fede che ricevette come patrimonio inestimabile dai suoi genitori, che si manifestava nella loro intima e convinta appartenenza alla religione ebraica e che fu causa della loro deportazione e della loro morte, quella stessa fede che egli non volle mai abbandonare, fino all’ultimo istante della vita. Per chi crede profondamente nella dignità dell’uomo e ne segue con passione le sorti la fede in Dio non rappresenta un elemento di disturbo o di svalutazione, ma un motivo di maggiore coinvolgimento e di maggiore responsabilità.
Frankl ha lasciato dunque un’eredità difficile, che non ci sospinge in un cantuccio a leccarci le ferite provocate da un ambiente ostile, da una struttura caratteriale difficile, da un’educazione autoritaria o permissiva, ma ci chiede di guardare a fronte alta dinanzi a noi, di respirare profondamente e a pieni polmoni l’aria della libertà e della responsabilità, di spalancare a chiunque le braccia e il cuore senza alcun ritegno e senza alcun pregiudizio e di lanciarci con entusiasmo in quell’avventura che ha come obiettivo il riconoscimento e la promozione del rispetto, della dignità e della salute integrale di ogni uomo.
Eugenio Fizzotti

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